Quarantadue casi registrati nell’ultimo anno a Brescia: il 20 per cento in più rispetto agli anni Cinquanta. La faccia nera del progresso, dell’inquinamento ambientale conseguente all’industrializzazione? Un bimbo che si ammala di tumore, una bomba a grappolo lanciata nel cuore di una famiglia. Ce ne sono sempre di più di casi a Brescia e in Italia, che vanta un triste record europeo in fatto di neoplasie infantili.
L’affollato convegno su «Ambiente e vita» organizzato ieri in San Barnaba dal coordinamento comitati ambientalisti Lombardia inizia con l’asciutta e spiazzante relazione di Fulvio Porta, primario dell’oncoematologia pediatrica dell’ospedale Civile di Brescia.
Dopo di lui si parlerà dei veleni incistiti nella terra di Brescia; si parlerà di Taranto e del caso Ilva, del cancerogeno benzoapirene che esce dai camini e finisce sul quartiere Tamburi (ma che sfora i limiti anche nell’aria di Brescia). Si parlerà della necessità di coordinare meglio i controlli sulle fonti inquinanti. Ma ciò che resta più impresso al pubblico, comprese le decine di studenti sprofondati nelle rosse poltroncine, sono i numeri dati dal dottor Porta: 38 mila i bimbi (dai 0 ai 14 anni) che ogni anno si ammalano di tumore in Italia, «Il 20 per cento in più che negli anni Cinquanta».
Anche Brescia vanta tristi numeri, con 42 casi oncologici nell’ultimo anno. «Tra le zone dove abbiamo registrato più tumori nel Nord Italia ci sono Brescia,
Che fare allora? «Non serve essere ambientalisti, ma rispettosi dell’ambiente. Sarebbe meglio spendere più soldi per la prevenzione dell’inquinamento piuttosto che cifre molto alte per curare i bimbi». Per questo Giorgio Assennato, direttore dell’Arpa pugliese si arrabbia e molto quando parla dell’Ilva e del decreto del governo: «l’impianto emette diossine tanto quanto come 8mila inceneritori ed è intollerabile che lo Stato permetta che gli impianti continuino a lavorare». Anche a Brescia il comparto siderurgico ha lasciato un fondo d’inquinamento sul territorio. Per questo oggi «è fondamentale l’etica d’impresa che adotti le migliori tecnologie per abbattere l’emissioni – spiega il direttore Arpa Brescia Giulio Sesana – come fatto da diverse acciaierie locali». Resta il fatto che quel passato industriale (a partire dalla Caffaro) ha «lasciato nella terra e nel sangue dei bresciani diossine e pcb in una quantità dieci volte maggiore che a Taranto – tuona lo storico ambientalista Marino Ruzzenti – ma qui le bonifiche non arrivano e la popolazione non si ribella. Perché?».