2 set. – (Adnkronos) – La ricerca piace soprattutto se fatta all’estero. A dare nota di questa realtà non proprio rosea per i nostri concittadini ricercatori è l’Unione Europea che boccia il bel paese. Nel 2011 l’Italia dedicherà l’1,1 per cento del suo Prodotto interno lordo alle spese destinate, appunto, alla ricerca e allo sviluppo.
Il dato è sconcertante se confrontato con gli altri paesi: la Germania, o la Danimarca, dedicheranno più del doppio (rispettivamente: 2,3% e 2,4%); la Svezia, più del triplo (3,3%); la Finlandia, quasi il triplo (3,1%) e Israele, addirittura il quadruplo (4,2%). Per non parlare dei colossi extraeuropei: Giappone (3,3%), Corea del Sud (3%), Usa (2,7%).
Dopo la lettura di questi dati non dovrebbe sorprendere la fuga di cervelli all’estero ma c’è anche chi vuole tornare nel bel paese. Come Francesca Di Biasio, specializzanda in neurologia a ‘La Sapienza’ di Roma, che ha scelto di frequentare l’ultimo anno di specializzazione alla Columbia University di New York.
Insieme “ad altri ricercatori provenienti dalle diverse parti del mondo, come israeliani e colombiani studio i disordini del movimento” spiega all’Adnkronos, la giovane ricercatrice che sulle motivazioni che l’hanno spinta a partire afferma: “volevo apprendere la prospettiva americana su questi disturbi e la metodologia di approccio al paziente”.
Un’esperienza importante “soprattutto per la presenza di Stanley Fahn, considerato uno dei massimi esperti sulla disciplina”. Fahn, infatti, è il direttore del Centro per i disturbi del movimento della Columbia University di New York.
In America, aggiunge Francesca, “un ricercatore se ha delle idee valide non solo non viene ostacolato ma sostenuto con i finanziamenti. Così a 25 anni i ricercatori della grande mela non solo non vivono nel precariato ma riescono anche ad organizzare il proprio futuro”. Il tutto, poi “senza ricorrere alla raccomandazione: in america viene valorizzato chi lavora”.
Gli italiani, però, nonostante siano poco ‘coccolati’ a casa propria, pare riscuotano successo oltre oceano: “siamo visti come persone dalle grandi idee e con voglia di lavorare. Forse perchè a differenza dei colleghi americani, siamo abituati a dover far più cose insieme, e che spesso non ci competono, come ad esempio i compiti di segreteria”.
Ma “nonostante le immense opportunità lavorative, la remunerazione economica e la crescita professionale, ho intenzione di tornare in Italia” dice Francesca che sul proprio futuro non ha dubbi: “Voglio far parte di quel gruppo di persone che spera ancora di poter rendere migliorare il nostro paese”.
Anche Antonio Verrico, specializzando in Pediatria alla Federico II di Napoli sta frequentando la Columbia University di New York “per fare ricerca sui tumori celebrali infantili”. La motivazione della sua scelta è semplice: “sono stato invitato dal professore Iavarone responsabile di un laboratorio presso l’Istitute for Cancer genetics della Columbia University”. Antonio lavora in un laboratorio dove al momento 6 ricercatori su 10 sono italiani e dove l’attività è finanziata anche da fondi italiani.
La ricerca in America, spiega, “è un business che offre lavoro a tante figure professionali: da segretari, tecnici di laboratorio a corrieri e personale incaricato per la gestione degli stabulari, locali dove sono custoditi le cavie da laboratorio. Il lavoro viene supportato da una rete logistica articolata che consente al lavoro del ricercatore di essere il più produttivo possibile”.
La ricerca, dunque, in America è un asse cardinale dello sviluppo tanto che “la scienza è una costante della vita quotidiana degli americani: in tanti leggono riviste scientifiche in metropolitana”. Insomma, “non ti senti di far parte di una nicchia ma di una rete ben organizzata”. Antonio tra qualche mese però rientra in Italia. Il mio sogno? “Lavorare in Italia in un equipe dove possano lavorare clinici e ricercatori insieme”.
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