Francesco vive in Calabria, ha undici anni, frequenta la seconda media,è bravo a scuola,è stato promosso con la media del nove. E’ volitivo, tenace e intraprendente;dopo aver frequentato per anni una scuola di calcio,ora sta sperimentando le vie della musica: studia la chitarra. E lo fa con molto impegno.
Francesco ha un fratello gemello di nome Umberto. La sua vita scorre serena in famiglia ed è piena di amici, di idee e di tanti progetti. Una volta l’anno Francesco viene a Roma per fare dei controlli sanitari.
Francesco è un bambino guarito. La sua malattia,un nefroblastoma, lo aveva portato, tanti anni fa,a Roma presso l’ospedale Bambino Gesù per curarsi, e nella Casa di Peter Pan per abitarvi insieme a sua madre, signora Anita.
E’ la signora Anita, raggiunta telefonicamente, che mi parla della vicenda di Francesco, della sua malattia, delle difficoltà incontrate nel corso dei due anni di terapie, del dolore, delle sofferenze, dell’impatto con gli ospedali, del confronto con altri bambini malati e con le loro famiglie. E poi, la sconfitta della malattia e la vittoria definitiva su di essa!
Non c’è bisogno che io rivolga le domande, minuziosamente preparate per realizzare l’intervista, per scrivere di questa storia a lieto fine; la signora Anita inizia un racconto appassionato,a tratti malinconico, a tratti combattivo, a tratti commosso,sempre sentito,coinvolto e coinvolgente, di quanto avvenuto nel Duemila.
“Francesco aveva solo diciassette mesi,eravamo appena usciti da problemi di salute che avevano riguardato il fratello Umberto e io ero già abbastanza provata…
All’inizio, contestualmente al ricovero di Francesco in ospedale, sono stata ospite di mia cognata che vive a Roma, poi, attraverso Gianna che è stato il gancio con Peter Pan siamo approdati in via S. Francesco di Sales. Accadeva a settembre del Duemila, la Casa aveva aperto i suoi battenti da pochi mesi. Siamo stati, credo, la prima famiglia italiana ad abitarvi,prima di noi era arrivata una famiglia marocchina della quale divenimmo subito amici, e poi arrivarono una famiglia pugliese e un’altra ancora calabrese; questa comune connotazione geografica, la condivisione dell’emergenza malattia, il ritrovarci lontani dalle nostre case, produssero una forte intesa e ci fecero ritrovare il senso, la quiete e la sicurezza delle nostre case d’origine. Si erano creati dei taciti accordi circa la gestione degli ambienti,ci si occupava a turno delle incombenze domestiche e dell’intrattenimento dei bambini, e quando i parenti ci portavano prodotti alimentari tipici delle nostre terre,essi si portavano in tavola e si condividevano con gli altri. Mai un alterco,mai un equivoco,solo un cemento forte! Purtroppo alcuni di loro sono stati meno fortunati e la vicenda malattia si è trasformata in un dolore molto più grande…
All’inizio Francesco non rispondeva alle terapie con i protocolli usuali, si è dovuto procedere dunque con terapie sperimentali, abbiamo vissuto momenti molto duri; io ero in aspettativa dal lavoro,mio marito era in Calabria a lavorare e veniva a trovarci come poteva, ma Umberto,l’altro bambino,piccolo anch’esso, era rimasto con mia madre e io ne sentivo la mancanza; sentivo che questa disgregazione forzata non era buona cosa,ma non avevamo scelta. Spesso mi sentivo sola: Io dovevo reggere le comunicazioni dei medici,io dovevo occuparmi del bambino, io dovevo fare delle scelte. Io, dovevo riuscire a sopportare il mio stesso dolore. Peter Pan è stato fondamentale perché mi ha sostenuto, compreso e anche coccolato, senza mai invadermi,senza ingerire, rispettandomi profondamente e mettendo a disposizione tutto il possibile. Tale contesto affettivo sollecitava il positivo che era in me e attivava le risorse, tanto più guardando mio figlio che nonostante le cure pesanti era sempre tanto vivace, il “Forzutello” di sempre,così come lo chiamavamo in famiglia per la sua instancabilità a spostare e trascinare anche oggetti molto pesanti!
Una volta dimesso dall’ospedale, erano trascorsi molti mesi, siamo tornati in Calabria, e lì, all’ospedale di Reggio, Francesco è dovuto rimanere per ventitré giorni in camera sterile; esperienza molto pesante anche questa. Anche per me. Ma da allora,i controlli sempre a Roma,al Bambin Gesù. Si crea una sorta di dipendenza dal luogo che ti ha salvato,ed è solo lì che vuoi andare. I medici di allora sono felici di rivedere Francesco e stentano a riconoscere quel piccolo terremoto di dieci anni fa.
E’ stata un’esperienza forte, e pur nella sofferenza ci ha fatto fare passi grandi verso una crescita umana che ci ha resi migliori. Io sento di poter affermare che dopo tutto questo, oggi, si, sono una persona migliore, l’essere entrata in zone d’ombra così dolorose ha affinato la mia sensibilità. Il mio sentire, ora, è diverso.
Contraccolpi psicologici per Francesco? No, fortunatamente non ce ne sono stati,era molto piccolo, allora, e non faceva domande, si beava delle sue amicizie in ospedale e a Peter Pan, aveva memorizzato i nomi degli altri piccoli pazienti e li cercava per giocare con loro. A volte qualcuno di loro non rispondeva più; Questo, si, era un vero strazio e non avevo certo spiegazioni da dare. Ma, come per noi adulti, questa esperienza precoce di malattia e di disagio generale,credo abbiano in qualche modo influito su di lui. Lo sento diverso, più forte, come temprato. E’ un bambino attento e sensibile, sa cogliere gli umori, le tensioni,
gli stati psicologici delle persone intorno a lui; il nostro rapporto madre-figlio è fortemente contraddistinto da queste modalità d’incontro.
Dove ho trovato la forza e il coraggio per non soccombere? Si, me lo chiedevano anche allora, rispondo che la forza di una madre, di un genitore, è inscritta nel DNA, si segue un istinto, chiunque lo farebbe, non credo di aver fatto cose straordinarie, ho solo seguito il percorso di Francesco, rimettendomi anche ai disegni imperscrutabili di Dio.
Una sola cosa non ho mai accettato e non accetterò mai: gli sguardi di pietà. Sguardi di pietà che, pure, ho dovuto sopportare proprio da chi era preposto al mio sostegno psicologico. Accadeva in ospedale: forse inesperienza, forse incapacità professionale a gestire un processo empatico, chiesi subito di essere esonerata dalla fruizione di un “aiuto” che aiuto non poteva essere.
Ricordo che all’inizio,subito dopo aver appreso della patologia di Francesco, non riuscivo a nemmeno a nominare il nome scientifico della malattia, parlavo genericamente di “problemi renali”. Poi ho imparato a guardarla in faccia, a chiamarla con il suo nome, e questo mi ha aiutato a combattere. Insieme a mio figlio.
Quello che voglio dire a chi si trova in circostanze analoghe a quelle in cui ci siamo trovati noi è di non mollare mai. Non gettare la spugna. Non lasciarsi sopraffare dai momenti bui e dallo sconforto perché ce la si può fare!”.
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