un percorso difficile ma la conferma aumenta l’adesione alle terapie

MILANO – Oggi molto spesso il paziente vuole essere al centro del processo decisionale che riguarda la propria salute, vuole essere informato e compiere autonomamente le proprie scelte. È quel che si dice l’empowerment del paziente, termine inglese che fa riferimento alla sensazione di “avere potere”, di sapere che cosa fare. Ma di fronte a una diagnosi, di quelle che i medici definiscono “severe”, anche il più empowered dei malati vacilla. In tal caso le reazioni sono diverse, a seconda del carattere, del livello culturale, del rapporto con il proprio medico di “primo parere”. Alcuni, una minoranza, preferiscono affidarsi totalmente alle scelte del medico. Ma la gran parte di loro cerca di avere tutte le informazioni possibili e non vuole essere lasciato solo nelle scelte. Oggi può rivolgersi a Internet, che in questo svolge, almeno dal punto di vista psicologico, una funzione positiva, nei siti dove i malati scambiano le loro opinioni ed esperienze, dove si può condividere l’ansia. Un’altra possibilità, anch’essa oggi in crescita, è rivolgersi alle associazioni di malati, che spesso gestiscono gli stessi siti. Oltre a svolgere un compito informativo le onlus aiutano spesso a canalizzare le ricerche di un “secondo parere”. Anche in questo sopperiscono a un compito che il Servizio sanitario non svolge e spesso lo fanno bene, specie quando ( è questa una garanzia di serietà) sono collegate e si appoggiano alle Società medico scientifiche. Ma la “second opinion” non rischia comunque di creare ulteriore incertezza al malato in un momento già difficile? «Secondo la mia esperienza — dice Claudio Mencacci, direttore del dipartimento di salute mentale dell’ospedale Fatebenefratelli di Milano — la “second opinion”, nelle persone che vengono poste di fronte a una diagnosi severa e impegnativa, aumenta la capacità di aderire alle cure, il che è molto importante per la riuscita delle terapie. Rinforza la convinzione di aver fatto la scelta giusta e aumenta la consapevolezza della propria situazione. Svolge quindi in questo senso una funzione molto positiva».

ATTEGGIAMENTI ESTREMI – «Certo — prosegue Mencacci — esistono degli atteggiamenti estremi: quelli che preferiscono un atteggiamento passivo, fideistico, e che in realtà scelgono la fuga dalla realtà. Così come quelli che invece esagerano in “secondi pareri”, che diventano innumerevoli, lo fanno in realtà per procrastinare la scelta, per rimandare le decisioni. A parte questi casi i medici comunque devono sapere che favorire la “seconda opinione” è un bene per il malato e anche per il medico, che deve essere animato da spirito collaborazione. E anche dimostrare un po’ di salutare umiltà». Sì alla “second opinion”, dunque, anche da parte dello psichiatra. E per quelli che esitano forse valgono le semplici e dirette raccomandazioni messe a punto dagli oncologi americani sul sito del Cancer Supportive Care Program, un’associazione che aiuta i malati di cancro. Sono i quattro buoni motivi per chiedere un secondo parere, che in questo caso riguardano i malati oncologici, ma valgono in fondo per tutte le malattie importanti. Primo buon motivo: «Quando si tratta di una malattia molto seria, se la diagnosi viene sbagliata la prima volta, potrebbe non esserci una seconda chance». Secondo motivo: «Il medico è un essere umano e quindi può sbagliare». Terzo: «Un altro medico può notare delle cose che il primo non ha visto». Quarto: «Un altro medico può sapere delle cose che il primo non sa».

Riccardo Renzi

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